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una ricerca gruppale sull’affido familiare

 

affido familiare, confini


Il punto di partenza

Nel Servizio Politiche Cittadine per l’Infanzia e l’Adolescenza della città di Venezia - nel febbraio 2007 - si dà avvio al gruppo di ricerca sull’affido familiare di minori provenienti o da genitori  trascuranti o da genitori stranieri non espatriati. Il mandato che mi viene assegnato è quello di far emergere i contenuti di pensiero messi in moto dalla realizzazione di due progetti. Uno, finanziato dalla Regione, per l’affido familiare. L’altro, finanziato invece dal Ministero, per l’accoglienza presso famiglie di connazionali dei minori stranieri che arrivano in città senza genitori. Si pensa di poter osservare quanto affiora durante la realizzazione dei programmi di lavoro messi in atto non solo per promuovere delle innovative azioni, ma anche per far nascere delle inedite idee sulla solidarietà interculturale, sullo sviluppo delle prassi che rendono efficace un affido familiare e sugli stili educativi che lo sostengono. Con la ricerca sull’affido si vogliono allora integrare tutte le azioni messe in campo attraverso i due nuovi progetti e si spera anche di garantire l’approfondimento del fenomeno dell’accoglienza di un bambino o di un ragazzo nella casa di una famiglia a lui estranea.

Nel gruppo[1], chiamato a svolgere questa ricerca, diventa così possibile interrogare ed indagare questa complessa risorsa messa a disposizione dei progetti di tutela. Dato l’obiettivo istituzionale, che all’interno del processo gruppale diventa il compito manifesto, assumo come coordinatore del gruppo[2] non solo la funzione di far emergere i contenuti intellettivi, ma anche quella di dare voce ai vissuti emotivi. Mi propongo cioè di leggere gli stati d’animo che emergono durante le discussioni gruppali aiutando i componenti a nominarli, riconoscerli e sviscerarli. La mia finalità è infatti quella di creare un collegamento tra il latente, che si fa vivo nel gruppo a partire dai processi di identificazione proiettiva, e il compito esplicito, che colora invece i ragionamenti e puntualizza le dissertazioni. Il fare ricerca in gruppo dunque non riguarda soltanto l’essere “convocati in tanti”[3], ma significa soprattutto accettare di “contaminare idee divergenti” e “provare emotivamente” ciò che si afferma. Ed è appunto grazie alla passione messa in campo da tutti i componenti che si va sviluppando nel gruppo un pensiero ricco e seducente, anche se, quello che avviene all’interno della dinamica, riguarda un sentire attraversato da confusioni e tribolazioni[4].

Ma non è forse il dolore destabilizzante il filo rosso di chi, solo e soletto, deve lasciare la sua casa, il suo nido, la sua terra, la sua cultura per andare Altrove ad incontrare Altri individui emotivamente ed affettivamente a lui estranei?

Nel gruppo di ricerca si indagano allora le rappresentazioni dell’Altrove e degli Altri. Altri sempre coinvolti in un progetto di affido che conduce Altrove un piccolo. Altri convocati dai progetti in quanto associazioni del privato sociale chiamate ad operare per incrementare l’affido familiare di bambini che vivono situazioni di disagio e per promuovere l’accoglienza dei ragazzi stranieri non accompagnati. Altri individuati come esperti al fine di verificare e promuovere le competenze educative delle famiglie affidatarie. Altri invitati a formarsi come mediatori culturali capaci di dialogare con le famiglie straniere sul tema dell’accoglienza. Altri destinati ad aprire un laboratorio per conoscere il bisogno di famiglia dei ragazzi entrati da soli in Italia. Altri infine come famiglie candidate all’affido che, mentre attendono, pensano, rielaborano ed approfondiscono la conoscenza di sé e le radici della spinta emotiva che le ha indotte a chiedere di ospitare un bambino sconosciuto.

Per andare alla ricerca di pensieri[5] non ancora nati, per dare cioè voce alle idee che girano nell’aria senza trovare un pensatore, si stabilisce dapprima un setting spazio temporale e poi, mettendo in moto la spirale della conoscenza[6], si analizza il compito del gruppo. Ogni riunione dura tre ore e vi partecipano i referenti istituzionali delle diverse azioni promosse dai due progetti. E’ dunque grazie alla disponibilità di questi colleghi che si è indagato il sapere cognitivo e si è esplorato il mondo affettivo che gira attorno all’affido familiare. E’ infatti nell’intreccio tra mente pensante e mente emotiva che si sono individuate nuove piste di lavoro. E’ proprio ragionando con l’animo, oltre che con l’intelligenza, che i partecipanti si sono messi in gioco in prima persona narrando aspetti intimi della loro vita sia personale che professionale.


Strumenti della ricerca

Il presupposto che rende possibile mettere il gruppo in ricerca deriva dal fatto che quasi tutti i suoi componenti hanno accumulato un’importante esperienza sull’argomento affido o sul tema stranieri, ma è anche favorito dalla capacità del gruppo di avvalersi pure della presenza di chi non ha alcuna specifica conoscenza su questi temi e che quindi ri-interroga chi ha un sapere già organizzato. Tutti i presenti, essendo stati chiamati ad andare oltre il noto, sono stati allora sollecitati ad analizzare l’ignoto.

Questo registro destabilizzante non è certo usuale e nemmeno facile dentro ad una istituzione poiché ognuno, per rendersi funzionale ad essa, va sempre più affermando ciò che conosce piuttosto che rendersi disponibile a mostrare ciò che non sa, non capisce, non si spiega. Inoltre la mia funzione di coordinatore della ricerca, ma anche di appartenente al sevizio, può sempre dar adito a fantasie persecutorie. Ed è proprio di questo mondo fantasmatico che ho tenuto conto nel transfert e nel controtransfert. Posso quindi sottolineare che il lavoro per me più impegnativo è quello che svolgo nella mia stanza mentale dove ospito il discorrere dei componenti, analizzo il senso del loro muoversi fisicamente oltre che intellettivamente e accolgo i pittogrammi, gli emergenti e i fatti scelti. Soppeso perciò a lungo dentro di me cosa comunicare ai partecipanti poiché devo decidere quale punto d’urgenza sottolineare, con quali parole farlo, verso quale vertice attirare l’attenzione. Questo mio lavorio interiore viene spesso sentito dal gruppo come destabilizzante poiché, questo serrato dialogo dentro di me, avviene nel più profondo silenzio.

Parlo soltanto dopo che ho esaminato e ponderato più e più volte il materiale emerso. Scelgo infine cosa dire per sostenere la ricerca, per rompere stereotipi, per togliere certezze. Per andare oltre il conosciuto.

La ricerca allora si compie soprattutto grazie a ciò che i componenti mi fanno sentire e pensare[7]. Alle volte per loro è complesso riconoscersi in quello che vado comprendendo ed evidenziando. Ma questo è dovuto alla diversa posizione che coordinatore e partecipanti assumono all’interno di ogni gruppo. Ciò che i componenti apprendono dall’esperienza non è dunque ciò che osservo ed imparo io.

Essere il coordinatore pertanto mi permette di vedere le questioni discusse nel gruppo da una posizione differente rispetto a quella degli operatori che si riuniscono con me. Il coordinatore è infatti il terzo vertice che guarda al legame tra il gruppo e il compito. Egli dunque osserva, sia nella tematica che nella dinamica, come si va sviluppando la finalità per la quale il gruppo si incontra.
Per analizzare il compito si sono inizialmente prefigurati dodici incontri, ma è stato possibile metterne in calendario solo nove. La questione del tempo pare dunque cruciale.

Il “tempo da perdere” per la ricerca non è mai facile da garantire nonostante gli operatori dei servizi pubblici abbraccino l’idea che il prodotto del sociale è proprio la conoscenza. “Ho altro da fare...” è la frase che giustifica, in più occasioni, le assenze di qualcuno dei componenti del gruppo che si trova impelagato nell’agire piuttosto che attrezzato a fermarsi e sostare su quello che sta osservando. Il rielaborare l’esperienza per apprendere da essa non è allora considerato, fino in fondo, l’agire privilegiato dei servizi sociali per conoscere i fenomeni di cui si occupano.

Cito un pensiero guida di Franca Olivetti Manoukian: “Noi nei nostri linguaggi stereotipati, nelle nostre forme di comunicazione diamo sempre per scontato che l’altro, quello che è nell’altra posizione, sia qualcuno che non è di un’altra tribù. E invece lo è perché molte aggregazioni sociali con cui noi veniamo in contatto (...persone che non hanno per noi comportamenti comprensibili) usano dei linguaggi e dei modi di comunicare che rimandano a delle realtà che per noi sono inconoscibili” (re/immaginare il Lavoro Sociale, Geki,   pag. 66). Il gruppo si predispone allora ad assumere la posizione menatale “antropologica” necessaria a chi cerca di decifrare la cultura di altre realtà.

 

Il senso dell’indagare

Nella ricerca sull’affido familiare si va sviluppando un pensiero sugli stili relazionali con cui i minori attraversano il guado, lo spazio intermedio, il nulla solitario, nell’andirivieni tra le due famiglie a cui appartengono[8].

I mediatori culturali coinvolti dal progetto per garantire una comunicazione con le famiglie straniere ci hanno aiutato a non dare nulla per scontato. Ci vogliono allora dei “mediatori culturali” anche per far sì che i bambini attraversino, senza troppi fraintendimenti, lo spazio vuoto che divide la cultura di una casa da quella di un’altra? Poter vedere in modo evidente i travagli dei minori stranieri che arrivano in Italia da soli ha dato infatti grande visibilità alle difficoltà che caratterizzano il passaggio tra due culture diverse. E’ questo un transito che mette in crisi - inevitabilmente - anche i bambini che si trasferiscono da una realtà familiare originaria ad una realtà familiare “straniera”.
Tutti i bambini in affido sono dunque dei migranti[9].
Ogni bambino in affido è inoltre “uno straniero che va a sollecitare lo straniero interno dell’altro”.[10]

Ogni esperienza di apertura dei confini familiari mobilita allora un senso di ansia che riguarda l’ignoto, lo sconosciuto, il diverso. Anche nel gruppo di ricerca l’incontro tra i diversi componenti fa nascere ansie e paure che, una volta affrontate, conducono ad importanti ibridazioni, vitali contaminazioni, arricchenti unioni. Il gruppo si sofferma a lungo sul pensiero che, mentre per un ragazzo proveniente dall’estero non vi è difficoltà a rappresentarsi il tema della “rottura identitaria” dovuta all’aver lasciato la sua famiglia, la sua casa, la sua Terra, la sua Patria, la sua lingua madre, le sue abitudine, le sue sicurezze… anche se in quel territorio si rischia la vita per fame, per il permanere di guerre insanabili, per la mancanza di chance esistenziali, non è altrettanto immediato vedere queste rotture nello sviluppo dell’identità quando si trapianta un minore da un contesto familiare pur a disagio - ma con la sua specifica cultura - ad un altro contesto familiare - pur risorsa, ma con una cultura diversa.  Eppure ogni bambino che va in affido vivrà a lungo - o per sempre -  come “emigrato” in un contesto differente da quello in cui ha affondato le sue origini. E se è vero che la migrazione è spesso una chance, è altrettanto vero che condanna ad una struggente nostalgia per ciò che un tempo era familiare.

Nel gruppo vengono rievocate, non senza turbamento, le sensazioni date dalla pelle di una persona cara, dai penetranti odori dell’infanzia, dai familiari sapori del cibo, dagli abituali rumori di casa, dalle feste collettive e dai riti consolidati. Al bambino sospeso tra due culture, come è il piccolo in affido familiare o lo straniero accolto da connazionali, poco importa che mangiare compostamente a tavola, lavarsi e profumarsi più volte al giorno, studiare nozioni con sacrificio e costanza siano delle regole sociali ritenute valide nell’occidente benestante e borghese se queste abitudini lo allontana inesorabilmente dalla sua mamma e dal suo papà! E quindi nel gruppo ci si chiede: “Chi ha detto che sia sicuramente meglio adattarsi a queste norme?”,  “Perché sono ritenute migliori di altre?”, “Chi dà il diritto di imporle?,“Il loro valore e la loro necessità a quali parametri culturali si iscrivono?”.
Immigrati e non immigrati, mostrano perciò come la violenza culturale del più forte possa nuocere alla cultura della diversità. Bambini di famiglie incompetenti e ragazzi venuti da lontano, potranno - forse - tornare un giorno a casa, ma dovranno però prima attraversare il dolore del distacco, il disorientamento procurato dal cambiamento, l’ansia di non essere all’altezza del contesto che li ospita. Piccoli trascurati e adolescenti vagabondi passano per una crisi che, solo se opportunamente accompagnata, approda ad una nuova evoluzione identitaria. E’ infatti su questo asse traumatico che si posiziona la grande chance offerta dall’affido familiare.

Nel gruppo di ricerca si è allora tornati e ritornati a prendere in considerazione i bisogni dei bambini e dei ragazzi poiché l’evoluzione, la crescita, la salute fisica e il benessere mentale del minore non possono essere mai dimenticati, lasciati in disparte, sottovalutati. L’affido infatti è sempre e comunque un’esperienza che deve aiutare lo sviluppo del Sé a partire da una frattura, da una discontinuità, da una strappo. Solo la cura di questa crisi fa dunque generare sviluppi identitari evolutivi.

Nel gruppo di ricerca allora tornano e ritornano questi interrogativi: “Basta la famiglia affidataria per curare la crisi?”, “Perché alle volte è sufficiente e alle volte no?”, “In quali occasioni, tempi del minore, cambiamenti esterni o interni al nucleo, la famiglia affidataria non può svolgere tutto il lavoro da sola?”, “Quali sono i nodi critici in cui è necessario un terzo che lavori sul mantenimento dei vincoli?”, “E quando la famiglia non ce la fa è necessario offrire contenitori di supporto? E che tipo di dispositivi? Con quale compito? Convocando chi?”.

 

Uno sguardo dentro

L’affido prende sempre forma attraverso una rottura della circonferenza che contiene la struttura familiare[11]. Ed è proprio questa lacerazione che fa emergere, in ciascun componente, quelle parti emotive agglutinate e bizzarre[12] che erano andate a depositarsi nella fissità delle sue abitudini domestiche. Ed è perciò la pelle psichica che protegge il nucleo familiare quella che viene strappata da eventi conflittuali funesti, dai viaggi della speranza verso esistenze migliori, dalle azioni abusanti, dalle molteplici incapacità genitoriali…

In tutti i casi - voluta o subita - l’uscita  di un membro della famiglia dal suo contesto produce una bruciante ferita. Ma anche la famiglia che accoglie un minore modifica il suo setting consueto e si trova perciò esposta violentemente alla ricerca di una nuova definizione di se stessa. L’affido familiare si preannuncia quindi come l’incontro tra soggetti portatori di una profonda sofferenza dovuta al loro aver squarciato sia l’involucro del contesto familiare dove è contenuto il loro Sé individuale sia la circonferenza che delinea ogni singola famiglia all’interno del suo ambiente culturale. I componenti del gruppo, osservando soprattutto l’evoluzione dei candidati all’affido si chiedono: “L’affido familiare può essere sostenuto solo da chi nella sua vita ha conosciuto la sofferenza? Cosa succede se nell’attesa l’affidatario supera lo scoglio emotivo che lo ha spinto a cercare riparazione al suo dolore attraverso un figlio d’altri?”.
L’affido quindi affonda la sua motivazione nel dolore per la perdita. Ma il lutto, ad un livello inconsapevole, comporta la colpa. Ed è proprio questa colpa che l’affidatario cerca di alleviare prendendo un bimbo in casa. Paga così la sua colpevolezza per aver simbolicamente distrutto qualcuno o qualcosa. Ma chi e che cosa: “La sua stessa famiglia d’origine? Il suo Paese ormai lontano? La sua identità frammentata? La sua coppia coniugale in crisi? Un figlio mai nato e sempre voluto?”.

L’accoglienza di un bambino rotto rappresenta comunque lo strumento positivo ed utile socialmente per riparare il senso di colpa di un individuo. Il gruppo suppone che la scarsa adesione sociale ai progetti di affido sia dovuta all’affievolirsi del senso di colpa negli individui occidentali che vivono nel terzo millennio. Forse rimane qualche esigua frangia religiosa che può ancora provarlo. Ma sono ben pochi i portatori della colpa da cui sgorga la responsabilità. Anche quella sociale. Come trovare allora parole per veicolare il valore dell’affido su un registro narcisistico piuttosto che riparativo? Una congrua somma elargita per ogni affido potrebbe avere questa funzione? E’ questa una ipotesi ancora tutta da applicare, indagare ed elaborare.

L’affido familiare, attraverso una considerevole quantità di dati analizzabili, viene invece definito come l’incontro di due sofferenze che, empatizzando a livelli profondi, rendono possibile una riparazione della perdita. Ci si riferisce alla perdita della madre patria, al dissolversi della promessa iscritta in ogni famiglia d’origine, ai lutti per la morte dei propri cari, ai vuoti per ciò che è venuto a mancare nella vita...  Il tema del lutto, con tutto il suo carico di dolore e di rabbia, sottende pertanto ogni affido. Un buon incontro tra le due sofferenze fa allora emergere l’aggressività che nasce dalla paura della perdita. E’ questa una furia che prende vita dal fatto che “l’altro non è come lo vorrei…, l’altro non mi dà quello che mi aspetto…, l’altro non è gratificante…, l’altro non mi ama in modo incondizionato..., l’altro disattende le mie aspettative…, l’altro non c’è quando lo vorrei presente…”.

La collera, che lenisce il dolore dovuto alla mancanza, attraversa anche il gruppo di ricerca e, seppur in modo misurato, permette di assaggiare in diretta l’angoscia della perdita. Il clima del cerchio si satura di rabbia quando si descrivono i bambini in affido considerati pacchi postali, quando si osservano le famiglie affidatarie che si ritirano o le famiglie d’origine che si prestano al gioco per poi rientrare, quando si guarda alle relazioni tra i servizi, quando si prendono in considerazione i partner dei due progetti. Nella dinamica gruppale spengo non pochi focolai che si attivano soprattutto quando si contrappone chi parla in nome dei servizi sociali della Municipalità con chi parla in nome del Centro per l’affido.

Sento il dramma di questo mancato incontro, ma nel gruppo di ricerca non c’è spazio per ripararlo. Per ora si può solo nominarlo. E così compare la frattura tra servizi sociali decentrati e servizio centrale per l’affido a metafora di una storia di accoglienza di un minore che vede sempre l’incontro tra due realtà familiari che si guardano con sospetto. Vengono allora delineate tutte quelle situazioni conflittuali nelle quali non si riesce a dialogare, parlarsi, comprendersi.

L’irritazione non manca nemmeno verso il coordinatore del gruppo quando non riesce a modulare il bruciore provocato dalla rottura del mondo conosciuto e lascia che penetrino nel cerchio troppi elementi di pensiero sentiti come estranei e destabilizzanti. E’ un’inquietudine che conduce gli operatori a comprendere come in molte storie di affido il dolore del bambino “che si sente catapultato in una realtà mai conosciuta” venga rifiutato, negato e divenga così inenarrabile. Se però non si dà parola a questa infinita tristezza che invade la mente del piccolo essa rimane silente, diventa ansia cronica e segna il campo relazionale rendendolo invivibile. Ben vengano allora i bambini che, una volta collocati nelle famiglie affidatarie, si arrabbiano, s’inquietano e strepitano. Essi stanno agendo il dolore del passaggio da una realtà conosciuta ad un mondo nuovo. E che questo mondo nuovo molte volte sia ritenuto migliore di quello di provenienza non ha nessun senso per chi è sommerso da un penetrante dolore. La famiglia affidataria può dunque spaventarsi nell’impatto con il dramma messo in scena dal bambino. Infatti se da una parte desidera incontrare la tragicità della vita per capirla, dall’altra ne ha anche una profonda paura poiché teme di esserne travolta.

E’ stato proprio il timore del dolore insopportabile che l’ha indotta - in un tempo lontano o vicino - a cancellare dalla coscienza i suoi drammi. Allora mentre vede comparire lo strazio legato alla separazione vuole “metterlo fuori casa”, “escluderlo reprimendolo”, “rinnegarlo agendo”, “farlo accudire da altri”, “essere aiutata a sostenerlo”, “far finta che non ci sia”.

 

Un bambino mai più solo

Il bambino in affido se è ben preparato al distacco da casa o dalla comunità dove risiede, non evacua con veemenza il suo dolore innominabile quanto dirompente. Non riempie cioè la casa e il campo emotivo che è contenuto in essa di “spazzatura mentale”. Il piccolo quindi, se opportunamente preparato all’affido, fa circolare la sua sofferenza con minor virulenza, prepotenza, drammaticità permettendo così alla famiglia accogliente di sopportare l’impatto emotivo. Sono quindi fondamentali le parole che avviano un piccolo verso l’esperienza di affido in quanto gli offrono una trama narrativa dove collocare i suoi stati d’animo.

Un bambino che può parlare del suo dramma non ha bisogno di agirlo. Nel gruppo si rievocano queste frasi pronunciate dai ragazzi: “Voglio una famiglia…, quando anch’io avrò dei genitori che mi prendono… desidero andarmene dalla comunità… mi piacerebbe tanto abitare in una casa…” associandole all’idea che il piccolo voglia andare in affido. In realtà egli vuole invece una madre ed un padre. Vuole che i suoi genitori facciano la mamma e il babbo. Immagina che lì - in quell’altrove sconosciuto della famiglia accogliente - li recupererà, ritroverà, riavrà. Non conosce infatti nessun altro modo per parlare della sua nostalgia nei confronti di un genitore buono. Un partecipante al gruppo osserva come i bambini più piccoli, con grande celerità, chiamino i genitori affidatari - mamma e papà - quasi a vedere se il nominare equivale al concretizzare. La parola e la cosa non sono separate. La fantasia rende reale ciò che non c’è. Ma si sa ogni incanto finisce.

Bisogna sempre, prima o poi, fare i conti con la realtà. Solo se il bambino potrà nominare i genitori assenti senza dover far finta che siano presenti potrà quindi arrivare a modulare il dolore del distacco, della perdita, della delusione. Nel piccolo questa possibilità narrativa mitiga il desiderio di torturare gli affidatari affinché sentano il tormento che egli vive. La narrazione del dolore della perdita può quindi essere la chiave per rendere sostenibile un affido.

Nel frattempo un altro partecipante osserva come molti piccini, atterriti dal silenzio che occulta il loro dramma, agiscano in maniera insensata attraverso comportamenti inadeguati, rabbie violente, fughe incomprensibili, furti ingiustificati. Il silenzio che copre l’angoscia trova, negli agiti degli affidatari, una ulteriore domanda di narrazione. Quando il loro spavento di fronte al “figlio-estraneo”, che è così tanto diverso dal bambino immaginato, non è raccontabile, anche loro agiscono. Parlano allora attraverso il ritiro della disponibilità, le critiche terrificanti verso la famiglia d’origine, la furia verso i servizi.

Questa intrigante trama emotiva è facile da evidenziare, comprendere e rappresentare in un gruppo di ricerca colpito da abbandoni e da inserimenti a sorpresa dei partecipanti, messo a soqquadro da pensieri inediti e da azioni impreviste dei collaboratori, sottoposto a pressioni per le attese istituzionali e per i giudizi dei responsabili dei servizi. Nel gruppo intanto compaiono timidamente delle domande molto complesse: “Siamo capaci di parlare di una famiglia assente? Con quali parole si può narrare di una mamma che non c’è più e di un padre che non ha saputo essere protettivo? Siamo attrezzati a parlare del dramma dell’abbandono che noi stessi abbiamo temuto?”. E, con un po’ di rammarico, il gruppo cerca di porre fine alla fantasia della famiglia perfetta. Rinuncia all’icona della “famiglia presepe” che ha assorbito fin dall’infanzia nell’incanto del natale. Rinuncia alla televisiva famiglia “mulino bianco” tanto bramata nell’infanzia in un sogno che vedeva ciascuno seduto attorno al desco di un nucleo  famigliare felice e contento.
Il gruppo si sofferma poi a lungo su questo quesito: “Chi fa da sponda al dolore innominabile che è parte integrante dell’affido familiare?”. Emerge l’ipotesi che la famiglia affidataria metta a disposizione il suo bisogno di elaborare lutti dolorosi. Sono queste delle sofferenze esprimibili soltanto attraverso il dolore del minore accolto. Per questo, anche se la valutazione e la conoscenza della famiglia candidata all’affido cerca di far emergere questi vissuti irrisolti, il loro aspetto tragico si rende visibile solo alla presenza del piccolo e nel contatto - diretto o indiretto - con la famiglia d’origine che sta sperimentando la sua drammatica perdita. L’alchimia relazionale che ripara questi dolori è davvero imprevedibile. Ma soprattutto non è prefigurabile con certezza per quali vie contrassegnate dall’attaccamento e dal distacco si debba compiere la riparazione dello strappo da mamma e papà.

Ci sono allora affidi che terminano precocemente come parte essenziale del processo di elaborazione della separazione luttuosa che, se non negata, ha delle potenzialità riparative inimmaginabili. E’ attraverso il ripetersi di una storia di abbandono che si elabora il punto nevralgico della trama luttuosa che è depositata nell’animo dei diversi soggetti coinvolti nell’affido. Il tema del fallimento, così banalmente usato nel linguaggio comune, deve perciò trasformarsi nel tema della “cura del lutto”. Chi se ne occupa non deve fallire questa grande occasione che non è negativa - né per il piccolo né per le famiglie coinvolte - a patto che sappia dare parola al dolore dell’allontanamento, al significato delle assenze, alla potenzialità che sorge da ogni cesura. E’ qui che si vede la maturità della “famiglia sociale” intesa come famiglia dei servizi pubblici e degli enti privati che circondano il bambino e sostengono il suo progetto di vita.

 

Il dolore nominabile

E’ il puer[13] interno del soggetto che si candida all’affido quello che reclama un bambino in carne ed ossa per uscire dal suo mutismo infantile. Il dramma che questo “figlio interno” deve rimettere in scena è però sempre e comunque quello di una innominabile perdita. Perdita, che se mai superata, comporta un senso di colpa inconscia che, ovviamente, nulla toglie alla dignità e alla generosità dell’offerta di accogliere un figlio d’altri e perciò nulla toglie alla possibilità di avere in affido un bambino sofferente. Anzi.

L’educazione del minore di cui la famiglia accogliente si fa carico riguarda allora la possibilità di modulare il dolore dei “bambini soli” con il non secondario vantaggio di modulare il proprio dramma interiore.  Un partecipante nota con disappunto che proprio le famiglie più provate, come quelle che realizzano un affido di un congiunto, sono lasciate più libere di seppellire il significato delle loro disgrazie. Quelli censurati sono i sentimenti indicibili che riguardano un parente morto, un figlio tossico, un consanguineo malato di mente, un familiare delinquente… Sono questi dei vissuti talmente tragici che nessuno si sente di ascoltarli. Sono queste delle emozioni che verranno inoculate nella mente del piccolo affinché sia lui a portarle in scena.

In verità, una buona accoglienza del minore comporta una buona disponibilità a lasciarsi destabilizzare, a lasciarsi cioè attraversare dal dolore senza nome, per arrivare a nominarlo attraverso il bambino accolto. Per questo il primo passo di un affido è rappresentato dal superare l’idea illusoria che tutto proceda bene. Se tutto funziona però nulla funziona. Quando tutto è quieto il processo riparativo che sta sotto alla motivazione di un affido riamane congelato.  
In alcuni momenti anche il processo nel gruppo di ricerca risulta doloroso. Ogni partecipante comprende infatti la sofferenza che vivono i bambini che vanno in affido vivendo su di sé il dolore dello smarrimento. La difficoltà dei componenti di entrare in un gruppo coordinato, ben diverso da una riunione, da un collettivo, da una équipe, è emotivamente simile alla difficoltà che deve affrontare un bambino nel suo entrare in un nuovo contesto di vita che, seppur utile, benefico ed interessante, gli è sconosciuto. Ogni operatore esprimendo il suo disorientamento mi ha quindi permesso di comprendere affettivamente quanto destabilizzi non riconoscere il “linguaggio dell’incontro”. E di questa disponibilità a parlare ed ascoltare i diversi “dialetti professionali”[14] sono particolarmente grata a tutti i componenti che hanno partecipato al gruppo. La  ricerca richiede dunque un salto di mentalità che ha un costo emotivo indiscutibile.

E’ un prezzo molto inquietante poiché apre la porta a fantasmi celati nell’esperienza migratoria vissuta da ciascun partecipante in prima persona. Per approfondire la ricerca occorre infatti passare attraverso la rievocazione delle proprie vicissitudini di figli andati in affido e bisogna analizzare i conflitti vissuti come genitori che danno in custodia temporanea i figli. E non solo. Diventa anche necessario sostare sulla propria dimensione di “coppia mista” che dà alla luce figli con doppie identità culturali.

Il tema del doppio entra quindi nel gruppo con il suo carico di elemento perturbante. La doppia appartenenza familiare di un minore in affido appare dunque in tutta la sua travolgente angoscia. Il conflitto di lealtà diventa un vissuto condiviso su cui sostare a lungo per sondare le proprie esperienze. Il gruppo si commuove di fronte alla triste storia di una componente che, persa la madre alla tenera età di tre anni, fece in fretta e furia il suo fagottino e andò ad abitare con un’altra famiglia che, poco dopo, la restituì perché piangeva in continuazione e digiunava con caparbietà. Non voleva proprio diventare una loro figlia e aveva tanta paura di dimenticare la sua dolce e bella mammina.

Ogni individuo è allora chiamato a riparare le lacerazioni della sua vita e lo può fare se i suoi gruppi prima esterni e poi, via via, sempre più interni riescono a mitigare la sua paura del nuovo. Le eredità familiari e sociali sono quindi sempre presenti come componenti di riferimento nel processo di inserimento in un gruppo sconosciuto, sia esso un gruppo familiare affidatario, un gruppo di apprendimento, un gruppo di ricerca. I gruppi interiori ispirano in ogni individuo il suo modo di relazionarsi nei nuovi contesti collettivi.

Ognuno si avvicina ad un nuovo gruppo convinto che funzioni secondo i vecchi schemi che ha precedentemente acquisito. 

 

La rottura critica

Nel gruppo di ricerca non si può mai crogiolarsi nelle vecchie sicurezze, attestarsi nei consueti linguaggi, navigare con sperimentati modelli di incontro. Ed ogni qualvolta questo impegnativo turbinio mentale giunge ad un punto di rottura del pensiero stereotipato, i referenti istituzionali dei progetti lo avvertono come una “rottura di scatole”. E si domandano perché sono stati chiamati ad osservare le loro relazioni con i soggetti delle diverse associazioni del privato sociale che devono realizzare i programmi di lavoro promossi in favore dell’affido familiare.

Sia nel bando regionale che in quello ministeriale vi era infatti l’obbligo di creare un vincolo tra ente pubblico e privato sociale. Il servizio comunale però non solo ha provveduto a gestire la co-progettazione ma, con il gruppo di ricerca, ha dato vita anche ad un cerchio interno all’ente locale con l’esplicito obiettivo di comprendere la complessità dei legami. “Le associazioni sono incompetenti nell’affido”, “Vendono fumo”, “Semplificano troppo” “Prendono un sacco di quattrini per non fare nulla” “Chissà con quali intrallazzi si sono aggiudicati la gara” sono le frasi che circolano nel gruppo.

Qualcuno arriva addirittura ad esclamare: “Rovinano il mio lavoro!”. Ed è quindi la paziente rielaborazione dei propri vissuti che permette, nel tempo, a ciascun membro del gruppo di intendersi con i suoi partner.

Nella fase conclusiva del percorso si arriva ad affermare: “Preferisco collaborare con chi già conosco piuttosto di interloquire con qualcuno di nuovo”, dichiarazione alla quale fa eco chi sostiene: “E’ stato davvero arricchente incontrare persone con diversi modi di pensare ed agire” subito dopo rinforzato da chi sussurra: “Sono contenta di aver aperto un dialogo con le associazioni del territorio”. L’incontro con il diverso, che nella fase iniziale causa uno spiacevole impatto emotivo, nella fase conclusiva diventa perciò il piacere di aver esplorato un pianeta sconosciuto. Una partecipante, stupita e fiera, dichiara: “Siamo passati da Babele ad Alice[15]”.
Il gruppo operativo trasmette dunque l’importanza di saper creare una comunicazione per comprendersi, consente di dare valore all’esplorazione di quanto ritenuto scontato, favorisce la capacità di indagare i punti oscuri per illuminarli. I partecipanti al gruppo di ricerca, grazie alle interpretazioni e alle segnalazioni del coordinatore, divengono sempre più consapevoli del pericolo di banalizzare i discorsi. Comprendono che ci vuole competenza e fatica per provare a comunicare con chi “parla un’altra lingua” e si persuadono che non è l’altro che deve cambiare, ma che è necessario rafforzare, migliorare e consolidare se stessi.

Qualcuno afferma: “Ognuno deve imparare a guardare a casa sua invece che spettegolare sulla vita degli altri!”. Ed è proprio a partire da questa intuizione che il gruppo si rende conto che, mentre gli adulti si sparlano addosso, si discute poco del minore in affido e si evita di dialogare con il bambino che si allontana da casa. Bambino nella cui mente si depositano le lotte - più o meno esplicite - tra le due famiglie che hanno visto lacerarsi i loro confini.

Genitori naturali squarciati e genitori affidatari invasi non solo si bloccano doloranti ed ammutoliti ma, con i loro comportamenti bizzarri, creano inibizioni ed inimicizie anche tra i professionisti dei differenti servizi deputati a sostenere  il progetto di affido.
Il tema del confine inteso come membrana permeabile, come linea di difesa delle identità, come barriera di scambio osmotico e come terra di nessuno lascia spazio ad un immaginario in cui si alternano vissuti cruenti e scenari speranzosi. Le metafore si susseguono in maniera incalzante, mostrano coloni che occupano le terre altrui, conquistatori che sterminano gli indigeni, briganti che arraffano impunemente, contrabbandieri che uccidono senza compassione.

A queste violente rotture del confine fanno però da contro altare immagini di coloni che portano benessere, conquistatori che diffondono sapienza, briganti che saccheggiano i ricchi per dare ai poveri, contrabbandieri che mettono in salvo profughi perseguitati. Il sangue vermiglio che connota le ferite provocate dalle prime sequenze lascia dunque spazio al rosso dei sgargianti fazzolettoni dei partigiani. Riconoscere il confine lacerante che smembra i legami di sangue e il confine unificante che invece annoda vincoli solidali segnala dunque il momento in cui anche il gruppo inizia a pensare al suo commiato.
Nella fase finale del percorso l’idea emergente si consolida attorno al confine umano che separa gli individui e alla parola che li unisce creando ponti. Per costruire la dimensione simbolica del linguaggio però ci vuole tempo e fatica senza dare nulla, ma proprio nulla, per scontato. Ogni comunicazione data per assimilata, infatti, diviene un possibile buco nella progettualità. Ma è proprio l’insuccesso nell’intendersi che insegna - e non è certo di poco conto - che lì dove è fallita la comprensione bisogna mettere parole per capirsi.
Il prodotto principale della ricerca-intervento riguarda allora la strutturazione di un lessico psico-emotivo capace di raggiungere l’interlocutore. E’ un linguaggio degli affetti che trova nuovi modi per comunicare empaticamente anche con chi non possiede la “nostra lingua” ed è un vocabolario emotivo disponibile a “lasciarsi contagiare da chi ha un altro codice”.
Nel gruppo operativo tocca a me non spaventarmi della difficoltà di tradurre in una narrazione significativa le discordanti comunicazioni dei partecipanti. E lo faccio anche analizzando rifiuti, critiche ed accuse che mi vengono rivolte. Di tanto in tanto mi giungono infatti dei giudizi sferzanti. Essi veicolano dei transfert negativi che sono essenziali per comprendere il processo in corso. Sono io che in quel momento ho in “affido” il progetto di ricerca e sono quindi io che devo tradurre anche il dolore destabilizzante in pensieri, idee e concetti digeribili ed assimilabili.

Gli operatori invitati a pensare in cerchio mi rimandano che nel gruppo si “fatica, fatica e fatica”. Un membro afferma: “Non riesco a capire il motivo per cui sto male non solo qui ma anche dopo l’incontro”. I più inesperti lamentano: “E’ irritante essere spiazzati continuamente”. Il gruppo vive così l’ansia di incontrare il mondo inconscio, il discorso latente, il precipitato emotivo mai nominato. E, rassicurato che andare oltre il conosciuto non è annichilente, abbandona definitivamente l’idea illusoria di dare al bambino, attraverso l’affido, una “bella e sana famiglia”. Qualcuno sentenzia:“Come professionisti non possiamo più credere alle favole!”. Ogni famiglia ha i suoi guai e il quesito riguarda solo se la presenza del minore aiuterà piccoli e grandi ad elaborarli o li renderà ancora più cruenti. Per tenere aperta l’indagine sul quesito se “stare in famiglia è una realtà sempre migliore” una componente del gruppo, che difende inizialmente questa credenza, poi rammenta le violenze subite da dei minori collocati in una famiglia affidataria. Ma senza arrivare a questi estremi non bisognerebbe interrogarsi ancora su quanto il trasloco temporaneo in un altro contesto di vita non destabilizzi più di quanto aiuti? E se l’apertura dei confini familiari “aiuta il bambino a riprendere fiato” quali sono i fattori che determinano la positività di questo momentaneo andirivieni? E se il vivere fuori casa diventa definitivo cosa comporta? Il gruppo sostiene che questi interrogativi sull’affido familiare rappresentano il punto cruciale delle conflittualità che attraversano i servizi. E non solo. Ma anche le famiglie, le organizzazioni e le leggi. A mio avviso però aver affrontato queste aree problematiche in un gruppo operativo ha permesso a ciascun componente di comprendere qualcosa in più sull’affido e di poter quindi procedere verso la verità, la conoscenza, il punto O di Bion. Anche i partecipanti sembrano ravvisare l’utilità di queste riflessioni perché, mentre con sincera gratitudine si congedano da me, fantasticano forum nazionali ed internazionali, progettano nuove modalità di lavoro nel servizio e nella regione e promuovono innovativi spazi di discussione dedicati alle famiglie affidatarie e alla rete degli operatori.

 

Riferimenti bibliografici

Arnosti C. e Milano F. (2006) Affido senza frontiere, FrancoAngeli, Milano
Berto F. e Scalari P. (2004), Adesso basta. Ascoltami!, la meridiana, Molfetta
Greco O. e Infrante R. (2001) Figli al confine, FrancoAngeli, Milano
Grimbereg L. e Grimberger R., (1990) Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, FrancoAngeli, Milano
Scalari P.  (2007), Rielaborare tra colleghi i naufragi familiari, in Animazione sociale, N°5, pag. 35- 45
Scalari P.,  (2007), Servizi che generano un surplus di pensiero dentro la città, in Animazione Sociale, N°5 pag. 61- 68
Scalari P., L’operatore nella relazione con l’altro, Inserto in Animazione sociale, N°11, pag. 27-61
 
 

 

 Note


[1] Hanno partecipato al gruppo: Edda Biancon, Lucia Trivellato, Barbara Penso, Elisabetta Baroni, Lucia Viero, Francesca Passerini, Maria Rosa Morbiato, Fabrizio Gori, Susanna Maione, Nives Martini, Elena Succi.

 

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[2] Cfr Bauleo A., (1993) Note di psicologia e psichiatria sociale, Pitagora, Bologna.

 

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[3] Le parole riportate in corsivo sono state pronunciate dai componenti del gruppo.

 

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[4] Berto F. Scalari P. (2008) Coordinare un gruppo di genitori in ConTatto,   la meridiana, Molfetta, Bari.

 

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[5] Cfr Bion  W. (1984) Discussioni con W. Bion Loescher, Torino.

 

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[6] Cfr Pichon Riviere E., (1985) Il processo gruppale, Lauretana, Loreto.

 

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[7] Cfr Berto F. Scalari P. (2004) Le nuove alleanze in Adesso basta ascoltami!, la meridiana Molfetta, Bari.

 

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[8] Cfr Greco O e Infrante R., (2001) Figli al confine GrancoAngeli, Milano.

 

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[9] Grinberg L. Grinberg R., (1990) Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio FrancoAngeli, Milano.

 

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[10] Arnosti C. e Milani F. (2006) Affido senza frontiere, FrancoAngeli, Milano.

 

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[11] Cfr  Berto F. e Scalari P, (2006) Fili spezzati, la meridiana, Molfetta, Bari.

 

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[12] Cfr Scalari P. (2004) Rompere e riattraversare confini familiari, www.psycomedia.

 

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[13] Cfr Pagliarani L., (1995)  Il coraggio di Venere, Cortina, Milano.

 

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[14] Cfr Ferro A. (1996) Nella stanza d’analisi, Cortina, Milano.

 

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[15] Alice è il nome di una veloce connessione internet.

 

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.